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martedì 24 settembre 2013

Anatomia della fame di Stefano Pini, La Vita Felice, 2012. Recensione di Alessandra Peluso.



Se Aristotele ha ragione, la poesia, non la storia, si avvicina alla filosofia, perché la poesia tende a rappresentare l’universale, la vita, la storia il particolare: «La vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare. Dell’universo possiamo dare l’idea in questo modo: a un individuo di tale o tale natura accade di dire o fare cose di tale o tale natura in corrispondenza alle leggi della verosimiglianza o della necessità; e a ciò appunto mira la poesia, sebbene ai suoi personaggi dia nomi propri». (Aristotele, Poetica)
Ecco che le poesie di Stefano Pini raccolte nel libro Anatomia della fame vertono sull’universale, inneggiano alla vita che coincide con una possibile filosofia di vita.
È questa la poesia in cui Pini descrive la vita vivisezionandola, dal greco “ανά τέμνω” che significa appunto tagliare, vivisezionare, congiunta con la metafora della fame come esperienza vissuta nel tempo, come metafora dell’esistenza di ognuno di noi che deve avere fame di amicizia, devozione, amore nei riguardi dell’esistenza di una donna, di un amico o di un fratello. Compare un immediato contrasto tra bene e male, sentimento e  paura, vita e morte che si intersecano magistralmente nell’intera raccolta.
Pertanto, ritengo innanzitutto opportuno suddividere, “vivisezionare” l’opera in quattro parti: la prima ha inizio con una brevissima disquisizione sul termine “dispersione” e con un aforisma di F.S. Fitzgerald: «Tese le braccia al cielo cristallino, splendente. Conosco me stesso - esclamò - ma nient’altro»; questa espressione del celebre scrittore introduce i versi  sull’esistenza individuale, su se stesso “nosce te ipso”: l’insegnamento socratico che esorta a trovare la verità dentro se stessi anziché nel mondo delle apparenze. È evidente inoltre, una stridente condizione del poeta calata nella realtà, la solitudine che si legge nei versi: «Il giallo delle pareti / è la cifra di nervi scoperti: / al vento d’ottobre s’affilano preghiere incomprese / polveri nascoste con troppa cura. / Dentro i rumori del cemento l’equilibrio / si costruisce di crepe. / Io non ho sostanza ma fiato secco e sudore / come in bocca appena sveglio». (p. 17). E la solitudine che si confronta con il tutto rappresentato dalla notte che richiama la morte. La notte che simboleggia il senso materno, la protezione, qui invece assume il significato della morte, della non vita. La metafora della morte, per dirla con Heidegger, è vista come ultima possibilità dell’esserci. Il poeta sembra qui concretizzare l’esistenza autentica, ossia l’accettazione della propria finitezza.
Egli infatti non ha paura della morte, richiamo a tal proposito la definizione di Heidegger “la morte come pura e semplice impossibilità dell’Esserci”. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile e infatti si legge: «La nebbia scivola a terra invisibile / sporca la campagna in opera / le nostre storie vietate, fermo immagine / interrotti alla finestra, il tendaggio obliquo / incapace di polpastrelli / sulla verità». (p. 20). Ed ancora nei versi : «Svilito / il tempo dei notturni rapaci / il desiderio del naufragio / ... », (p. 21) riecheggia inoltre la metafora del naufragio tipica di esistenzialisti come Jasper, Heidegger, Sartre, Kafka, Leopardi.  Mentre la morte esplode nella poesia: «I monologhi provati allo specchio / maschere sempre diverse, stremate/ solitudini a divagare / di una dialettica rimossa. L’assenza è la qualità prima della morte, ripeto: voi, e non io». (p. 22). Irrompe la morte come un velo sottile adagiato dolcemente su di un corpo.
A tal proposito, può balzare alla mente il ricordo del pensiero di Leopardi: «Terribile e awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri come chi ha il coraggio di morire». (G. Leopardi, Zibaldone, 4391, 23 settembre 1828); così come la metafora scotellariana “Penna e rasoio” in cui incidono i versi del poeta e recidono, con occhio fenomenologico, l’esistenza individuale e collettiva nella problematicità della vita.
Tuttavia riprendendo la suddivisione delle parti, enucleo la seconda parte il cui incipit è dedicato ad una grande poetessa contemporanea Alda Merini: «Non sono e non sarò mai una donna addomesticabile». E qui dall’esistenza individuale si sposta l’attenzione sulla donna e si leggono i sublimi versi: «Ridi» / «L’ordine dato alla terra per la carne colma le distanze / le tue labbra chiamano il sipario. / Serrande alzate, la materia scossa» (p. 34) e persiste la magnificenza della donna nei versi: « ... / Il destino danza lungo una ferita verticale. / Ogni tuo passo è predizione, scrive regole il mio germe / ti ascolta la pelle a occhi serrati». (p. 35).
Pertanto, nel particolare emerge l’inquietudine, non a caso il poeta adotta l’espressione di Albert Camus: «L’irrequietudine nasce nel cuore dei vivi». Così si apre la terza parte con un poeta inquieto nel descrivere la fame, l’epidemia della peste, la distruzione all’orizzonte che sembra evocare la magia descritta nell’Infinito del Leopardi, sino alla finitezza del ricordo di un amore: « ... / Allungo le mani sulla pelle, / la carne cede ogni punto in cui manchi». (p. 53).
Infine, Stefano Pini conclude con ovvia provvisorietà, riportando la mente ad un celebre passo di Nietzsche: «Così parlò Zarathustra e abbandonò la sua spelonca, ardente e forte come un sole mattutino che esce da scure montagne». In tal modo fiorisce la speranza di salvezza dalla peste cercando la luce, la verità: «Vorrei essere grande» / «Il treno raccoglie giochi di luce / una voce che dev’essere stata mia. / Nel letto della pianura il caldo / filtra dai finestrini, la sera / sembra non arrivare mai». (p. 73).
Ed inoltre si legge ancora nei versi: « ... / Sappiamo delle peregrinazioni sole / nell’aria lattiginosa del mattino: / per questo possiamo danzare, non credere / fermi nell’ultima fila di un teatro / la scena da inventare». (p. 75). È ricercato l’attributo “lattiginoso” dato all’aria, bianca e densa come il latte.
Appare come un bellissimo dipinto reale e surreale nello stesso tempo.
Le poesie di Pini sembrano incredibilmente metafisiche, una non realtà che permane sull’esistenza degli esseri umani, versi in cui traboccano metafore, contraddizioni, conflitti che si descrivono e si accettano nell’intera raccolta Anatomia della fame.

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