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lunedì 11 luglio 2011

Trattato della vita elegante di Honoré de Balzac

Il Trattato della vita elegante di Honoré (de) Balzac è un libro delizioso e dinamitardo. Delizioso perché dinamitardo.
    Il fatto che la somma delle osservazioni che raccoglie si presenti infine come la proposta di un paradosso può essere assunto a garanzia che ci troviamo dinnanzi a un importante manuale di filosofia applicata. Una filosofia di vita, e quindi di morte e di amore avrebbe aggiunto Mishima, che si è espresso in questi termini elucubrando, troppo profondamente, sul suo Hagakure, il manuale del samurai che Pietrogiacomi, nella bella introduzione all’agile opuscolo che proponiamo all’attenzione dei lettori, cita come distrattamente. Un modo coerentemente blasé di rinviare il lettore a una serie di riflessioni vaste, ognuna delle quali non trascurabili. Tra l’altro lo stesso Hagakure non ha mancato di occuparsi di eleganza. Il samurai ha il dovere dell’eleganza (deve sapersi vestire, truccare, mostrarsi bello, giovane, raffinato). Un dovere che deve spartire con quello, non inferiore, che gli impone, tutto al contrario, il disprezzo dell’eleganza. Non si può ridurre questo testo sacro a una definizione, ma diciamo che l’insieme delle sue considerazioni potrebbero arrivare a suggerire che la via che mena un uomo alla vita è la morte, e che chi scopre questo manifesto segreto diviene un individuo libero, fino al punto di poter rinunciare alla sua libertà e perdersi negli altri. E sul piano di queste riflessioni che il Trattato della vita elegante si apparenta alla via del samurai. Anche Balzac si ritrova a tormentare, e non poco, il suo lettore con una serie di proposizioni che ci propongono l’eleganza come un mistero piantato nel cuore dolorante della nostra augusta civiltà. L’eleganza, per Balzac, non si definisce. L’eleganza non ce la può dare né la schiatta e, meno che mai, il denaro. L’eleganza non è nei vestiti. L’eleganza non è nell’eleganza. L’eleganza coincide con un determinato tipo di uomo.
     Questo è un modo serio di farla finita con la metafisica e con le dottrine. Questo spazzare vie le nostre superstizioni sulla misurabilità, sulla commerciabilità, sull’utile, sul ragionevole tutto a favore del valore è una proposta radicale di rivoluzione. Magari Balzac ha proprio pensato alla rivoluzione, che andava tanto di moda ai tempi suoi; e a Saint-Simon (che cita); e a quel mistero da poco che è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ne parla espressamente: sapete, quel mistero su cui hanno riflettuto tanti studiosi molto seri, quando per esempio, si interrogano su come mai è possibile che Hitler fosse tanto pazzo e cattivo da fare cose così brutte alla povera gente onesta. Provo a rispondere con Balzac: la soluzione è che Hitler ci trovava il conveniente, e che la gente non era buona e onesta, ma pazza e pure cattiva. Pazzi, dal più affamato degli operai al più ricco capitano di industria a gettare le proprie vite come obolo a questo Dio dell’utile e del commerciabile che è la nostra augusta (angusta) civiltà. Il Trattato della vita elegante è un manuale di socialismo radicale, ossia senza dottrine sociali, senza lo spettro di nessuna società da costruire, senza manie di socievolezze (un socialismo senza impiegati statali e gente tanto rumorosamente zelante sul lavoro). Un socialismo tutto costruito attorno al determinato tipo di uomo di cui sopra, l’uomo elegante, ossia che sa scegliere: prima di tutto la propria vita, magari perché sa che a questa porta la morte, e tutto il resto. Chiamiamolo poeta, quello che fa per eccellenza, e pensiamo la poesia per quello che è: l’azione fondamentale.
    Penso a un altro poeta, a un altro arbitro di eleganza (selvaggia e raffinata come sarebbe piaciuta al maestro dell’Hagakure). Penso a D’Annunzio che, nella realizzazione dell’utopia fiumana, rivelò come la poesia (così titolò un giornale dell’epoca) sia nella sua essenza dinamitarda. Deliziosa e dinamitarda.

Pier Paolo  Di Mino

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