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giovedì 26 maggio 2011

Luca Di Persio MOMENTO ZERO (Elliot)





















Un estratto
- Lunedì 15 ottobre, ore 4.50. Roma, periferia sud, via Appia Nuova, 5 km oltre il Grande Raccordo Anulare. Intense perturbazioni in arrivo dal versante atlantico. Ottantadue km/h. La luce stava tornando. La sentiva strisciare alle sue spalle, guadagnare spazio. Sarebbe arrivata di colpo a prenderlo e trascinarlo via, come la massa di una marea. Avrebbe divorato ogni cosa e riempito fino all’orlo tutti i buchi, le cavità e le fessure della sua testa. Strinse gli occhi e schiacciò l’acceleratore. Il vetro era appannato, nonostante lo sbrinatore fosse alla massima velocità. Staccò una mano dal volante per pulirlo, quando le luci lampeggianti della strada illuminarono di colpo il gomito di una curva chiusa e stretta. Un’ondata di riflessi gialli invase l’abitacolo: sterzò all’ultimo momento e colpì con la fiancata dell’auto un pezzo sporgente di guardrail. Lo specchio retrovisore destro si staccò dallo sportello, sbatté a terra e schizzò via in mille frantumi. Sentì le ruote posteriori perdere aderenza e scivolare verso il limite della carreggiata. Diede un colpo di gas, scalò marcia e in qualche modo riprese il controllo dell’auto, prima che fosse troppo tardi. Gli alberi e i burroni non si muovono, lo aveva sentito dire una volta a un famoso pilota di rally. Ma ora non gli credeva affatto. Riprese fiato. Il naso gli andava a fuoco. Alzò il volume girando la manopola a vuoto, oltre il limite, e le casse davanti gracchiarono distorcendo i bassi. Non riusciva a sentire alto quanto avrebbe voluto. Gli sembrò di vedere una c’hai le palle. Chiamiamo il Giona che se la carica lui la tipa. Dai. Ci costa duecento euro il Giona, vero Darietto? Darietto?». Lippo si rivolse al tizio che guidava; ma quello non disse nulla. Aspettò qualche secondo, poi riprese a parlare. «E la tipa ce la scopiamo tutti e tre senza rischiare un cazzo. Un cazzo. Noi tre più Giona, è chiaro. Ci pensa lui a tutto e poi gli dà quattro sveglie alla troia e la scarica da qualche parte. Facciamolo dai. Darietto, lo hai già fatto, vero? Come si chiamava quella che vi siete caricati a Capodanno? Lucrezia? Luridella? Porella… anzi, porella ’sto grandissimo cazzo! Cazzo. Oh, un’altra cosa, Darietto bello e tenebroso: ma quanto fa ’sto bidone di macchina di tuo padre? Li prende i duecinquanta all’ora? All’ora?». Ridevano. Ma Dario Murri guidava e non rideva. E non parlava. Guidava, non rideva, non parlava. Gli altri due continuavano a beccarsi con una voce troppo alta per il suo mal di testa. Lippo poggiò la mano sui tasti dell’impianto stereo. «Basta salsa! C’ha rotto le palle ’sta salsa. Mettiamo Radio Globo. A palla. Che fanno la musica “antica” da discoteca. Vai Riccardino, alziamo la caciara vera. Rolla pure un cannone, che c’ho voglia. Voglia». «Grande Lippo!». Riccardo prese le cartine dalla tasca della giacca, quando notò qualcosa in lontananza, sulla strada, oltre il vetro del parabrezza. Indicò un punto con il dito, tra le gocce di pioggia sempre più fitte. Poi disse. «Oh, ragazzi… laggiù… li vedete quei fari? Eh? Che dite?». Lippo gli rispose eccitato, mentre con la mano smuoveva la testa di Dario. «Che vuoi fa’ il giochetto? Lo facciamo caga’ sotto dalla paura? Dalla paura?». A quel punto, Dario Murri parlò. «Lippo, ma perché cazzo ripeti sempre le cose due volte, te?». «Ma guarda! Darietto il silenzioso ha parlato! Parlato! Guida e parla pure, adesso. Allora ce l’hai la lingua, Darietto bello, però la usi quando non devi. Non devi. È una malattia, ve l’ho spiegato già, mi pare. Mi pare. Quando sono fatto mi prende. Prende!».

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