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mercoledì 13 aprile 2011

Sherlock Stone e l’enigma della puzza di aceto. Intervento di Silla Hicks








Posso solo immaginare cosa sia, dopo una vita di fatti mettersi a scrivere di sogni. Perché è questo che ha fatto, l’autore di questo libro che immagino essersi rigirato per anni la storia nelle tasche, ché la ricerca seria non lascia spazio a divertissement di sorta, dieci ore sui libri e poi a letto, gli occhi spalancati al soffitto sognando l’altrove e l’altrimenti, inventandosi qualcos’altro e un’altra vita. Non lo so se è davvero un signore brizzolato con gli occhi azzurri oppure no, certo è davvero stato in Egitto e veramente se ne è innamorato, e queste pagine sono una lettera di scuse, scusa se per secoli ti abbiamo strappato via dalle braccia ciò che ti apparteneva, scusa se ti abbiamo portato via la tua storia e il tuo futuro con la stessa sicumera di scuse con cui gli occidentali ricchi e senza figli portano via bambini scuri da paesi poveri, ripetendo che potranno darli tutto ciò che lì dove sono certamente non avrebbero, le attenzioni e le cure che meritano, senza accorgersi che il vero amore non è mai pretesto di rapina. La storia, intesa come vicenda raccontata, resta sullo sfondo, rispetto alla descrizione del Cairo e dei tombaroli che denudano le mummie per recuperare i papiri usati che le vestono, delle spedizioni archeologiche paravento di razzie, della passione per l’antichità come scusa di saccheggi. Rispetto al problema della burocrazia e della ragion di stato che invadono quello della cultura e dell’arte come qualsiasi altro mondo, alla ragnatela di gelosie da ufficio che sono in un Museo come in una banca o in un’industria manifatturiera. E fa riflettere il dipendente misogino nell’Inghilterra civilizzata, che propugna l’inferiorità delle donne sancita da dio con il piglio dei più retrivi fondamentalisti islamici. L’archeologo, il poliziotto, la direttrice del museo, la fantomatica setta di adoratori di Anubi sono monodimensionali avatar confezionati ad hoc per incorniciare riflessioni che vanno oltre la storiella, che precipita verso il finale frettolosamente perché ha già detto quello che aveva da dire. Non lo so, se il professore si senta ancora in colpa, verso il suo Egitto e verso tutta la storia che ha studiato, per quello che quelli come lui – archeologi, studiosi, esploratori – si sono presi perché loro potevano – conservare, studiare, analizzare , proteggere - senza rimorsi, o se finalmente sia venuto a patti con secoli di razzie. Quello che so per certo, è che deve averci pensato molto, a come chiedere perdono. Ed è questo – questo e basta – che questo libro è. Una richiesta di perdono sofferta, straziante, come è sempre quando si è pentiti davvero, e non importa se non siamo stati noi a farlo, basta essere nati da questa parte per portarne il peso, occidente di civiltà che incivilmente ha rubato e che ancora ruba: la mia Germania si tiene tuttora i fregi del Partenone e il Louvre scoppia di Egitto, di Grecia, di Italia, la Nike di Samotracia non si è vestita di vento per stare in cima a una scalinata, il patrimonio dell’umanità è certo di tutti ma in primis sempre il figlio di qualcuno. Peccato solo che i correttori di bozze si siano ostinati a rimarcare accenti desueti nell’italiano moderno, su parole come sùbito e ancòra su cui nessuno li mette, ma queste cento pagine non sono né vogliono essere un romanzo, in fondo, non sono letteratura ma piuttosto metafora, di quello che il mondo avventuroso di Indiana Jones in realtà è stato – forse ancora è – scritta da uno che in quel mondo c’è stato una vita, che non credo voglia fare lo scrittore e che ha chiuso in fretta per tornarvici, alle sue carte, al Cairo, al tè alla menta e ai suk, avendo espiato di appartenere alla genìa dei suoi razziatori. Un’ultima cosa: il paese in cui ho scelto di vivere tratta sistematicamente le tracce della storia come materiale di scarto, mezza Pompei è crollata, la città in cui vivo – che è stata quella di Taras – si contorce tra gli spasmi della diossina. Mi spiace, ma non riesco a non pensare che forse se qualche studioso straniero e civilizzato si portasse altrove il nostro patrimonio abbandonato – nel migliore dei casi all’incuria – forse potrebbe salvarlo. Non si senta in colpa, professore. Per quello che vale, forse un Paese deve meritare la sua storia. Forse, anche se mascherato da rapina, all’abbandono è sempre meglio l’amore.

IL DR. CAVENDISH E LA MUMMIA DEL MUSO ORIENTALE di Mario Capasso (Pensa MultiMedia)

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