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venerdì 15 ottobre 2010

Benedetto il frutto di Federica Francesca Ricchiuto (Libellula edizioni). Intervento di Francesco Caccetta

















Salire e scendere le scale della vita, dei ricordi, della propria esistenza, è esercizio non facile: a volte gioioso e spensierato in quel tuffarsi voluttuoso nella magia del passato, di quell’essere fanciullo, ma altre ancora faticoso e dolente, rapido e spietato nel riaprire ferite mai rimarginate o crudele nell’aprire la stanza dei rimpianti e delle vergogne, dei conflitti e delle sconfitte. Un affannarsi nella fragilità e nella grandezza intrinseca dell’essere umano preso integralmente con le sue paure, le sue angosce, le sue speranze, i suoi aneliti verso l’alto, le sue esaltazioni ma anche con le sue intime storture, con i suoi vizi e con le sue aberrazioni. Ed è in questo ambito che ci porta la lettura di Benedetto il frutto di Federica Francesca Ricchiuto. Una storia che è di tutti i giorni, un racconto di vita e di tempi, di uomini ma soprattutto di donne, di amori e di passioni, di colpe e di paure, di slanci alti di sentimento, di lancinanti tormenti e di conflitti interiori. Pagine scritte con punti alternati, di dritto e di rovescio, per introdurre il lettore e la coscienza a due mondi diversi, a due storie lontane e contrastanti ma paradossalmente identiche, a due donne figlie del loro tempo, ad una condizione femminile che lega indissolubilmente la donna alla vita. Escono così fuori prepotentemente, ma con grazia descrittiva e con pienezza di contenuti, due donne, due mondi, due società storicamente, culturalmente, moralmente, socialmente ed economicamente diverse. Da un lato una società a noi non troppo lontana ma ormai profondamente distante e diversa, forse più semplice, più ordinata secondo schemi che il tempo ha scolpito nel suo lento fluire, che si muove secondo partiture di modo e di maniera, e che rappresenta l’ambito storico e temporale di Maria, figlia del suo tempo, dell’Italia meridionale del dopoguerra, vittima di una condizione femminile ad autocoscienza limitata. Dall’altra la società odierna, moderna, complessa, dai molteplici aspetti, espressione della velocità e della continua evoluzione, frutto della contestazione, della interminabile libertà, è la società di Marta, contraltare naturale di Maria. Marta libera per un’autocoscienza piena, o forse apparentemente piena, ebbra dell’Io e del sé. Libera da condizionamenti ma schiava del successo, del lavoro, della macchina complessa della costruzione della carriera, dell’affermazione, dell’autostima. Maria, donna sola, schiava della maldicenza, del giudizio altrui, della paura ancestrale delle colpe e del peccato, vittima del sopruso e dell’abuso, di quella violenza che è rimasta per troppo tempo e per troppi anni nascosta, ama profondamente la vita che ha in sé nel rispetto e nel segno di un Dio, preda delle sue convinzioni, di una religiosità che è quasi connaturale. Per Maria Dio c’è sempre e lo si avverte continuamente, nelle parole, nelle speranze, negli atteggiamenti. Marta è la diversità moderna che costantemente si alterna a Maria, che pagina dopo pagina dispiega la sua figura femminile, tormentata, la sua solitudine da un dio, tutta presa dalla macchina consequenziale della vita programmata e tecnologica, schiava della superbia del tempo moderno, di una sorta di hybris oggi tutta femminile, che trova sponda nella tracotanza della scienza, schiava del culto di se stessi, schiava di una sete di appagamento personale. Maria che oscura se stessa e la sua felicità in onore di una vita, Marta che sopprime una vita in ossequio al suo futuro ed a se stessa. Maria che vive e parla di amore, Marta che perde un amore e soffoca il suo amore. Fra le due donne, fra le loro realtà, la figura di Antonio che vive una personale nemesi storica, che osserva l’assurdo della vita: “proprio nel momento in cui scopriva di essere il frutto di un orribile atto, un figlio non voluto, nella sua stessa vita arrivava un figlio non voluto”. Antonio che è frutto delle scelte difficili, che è figlio dell’amore, ritrova così se stesso, la sua identità attraverso Maria. Un amore che vince sempre la partita finale, un amore che conosce la pietà ed il perdono e che và oltre, oltre tutto, oltre il tempo, oltre gli uomini, oltre le cattiverie e le debolezze, oltre le tentazioni, oltre le avversità. Un amore che arriva a comprendere le ragioni altrui, quelle di Maria e quelle di Marta, che spinge ed incoraggia a superare tutto e tutti. Un amore profondo e ritrovato che pronuncia al termine un “io non ti abbandono” che è in fondo la speranza della vita e dell’uomo e che è la ragione stessa di Benedetto il frutto, il suo intimo e sottile messaggio, il suo respiro ed il suo alito.

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