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domenica 22 agosto 2010

LA BETISSA - Storia composita dell'uomo dei curli e di una grassa signora. Di Antonio Verri (Kurumuny). Intervento di Aldo Bello





















Verri mi passò una copia dattiloscritta della Betissa una sera, nella casa di campagna matinese nella quale ci si incontrava di frequente col testo della Storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora. Credo fosse stato, simultaneamente, subito dopo, a due comuni amici, Antonio Errico e Maurizio Nocera, con il fine di provocare a breve quello che era un confronto quasi rituale su forma e contenuti, su visioni del mondo e scenari onirici, con conversazioni, con dialoghi incrociati, con interpretazioni non sempre e non del tutto convergenti. Il testo fu pubblicato nel 1987 su «Apulia», ed ebbe diffusione diacronica, ma anche gran risonanza in campo letterario, perché Betissa rappresentò un momento di snodo nella storia della narrativa (non soltanto) del Salento e del Sud. Intanto, per l’invenzione espressiva. I codici linguistici di Verri registravano una radicale trasformazione, diventando prevalentemente connotativi, poiché caricavano di ulteriori significati la stessa significazione elaborata dai codici iconografici. Ad esempio, la scrittura fantastica tese ad alterare la realtà, e i significati comunemente veicolati dalla realtà rappresentata, inducendo allusioni e associazioni di idee che valevano all’interno di una cultura, di uno stile, di un momento creativo. Cioè: dal momento che il processo di connotazione tendeva a creare significati decodificabili soltanto entro una particolare cultura, possiamo dire che i codici linguistici del Verri di Betissa presentavano un alto grado di ambiguità; inoltre, avevano carattere prevalentemente dinamico, dato che venivano determinati attraverso una complessa procedura da negoziazione con il lettore. Ciò vuol dire che, variando le condizioni e i modelli culturali, certi codici linguistici potevano essere adottati dal senso comune e trasformarsi in codici iconografici e di riconoscimento. Ciò accade di solito quando uno stile impone i propri modelli al punto di creare un sistema di lettura, nell’osservatore, in cui creatività e soggettività sono reciproche e giocano un ruolo esclusivo e preponderante. E su tutto questo si incentrò la novità sconvolgente di Betissa: sull’uso sempre sapiente e originale del linguaggio, e su un premeditato, preciso rovesciamento dei valori basati su di esso. Formidabile era stata la ricerca linguistica, fondata su giochi di parole, ripetizioni, accumulazioni, echi ondulari, e riferimenti colti, e riemergenze gergali, e ridondanze dialogiche nobilitate dall’uso di un’ortografia fonetica raffinatissima. Il narratore (il poeta) pare confermi così, e amplifichi, la vena da cui, a ben leggere, scaturiscono via via le pagine di visioni ed evocazioni, di reinvenzioni e di traslati. La sua è forza che esplode da una nativa esuberanza, nutrita di memoria, lievitata di suggestioni letterarie, ricca di vigore interno, rampante, che permea e circola, invade e annette. Questo privilegio gli deriva direttamente dagli umori della sua terra, e dalla meravigliate scoperte che tutto sottendono: verità e luogo fantastico, valori e passioni, vivacità narrativa, dimensione di spazi e tempi illimitati. Perciò i personaggi sembrano avere una portata dimostrativa della fatalità del mondo quanto meno accennano a uscire da sé, quanto più abbracciano la loro magmatica essenza; anche la psicologia, pur alta, e profondamente toccata, è subito trascritta nella sua perfetta strumentazione, nella chiarezza finale che s’avvia nell’incantarsi dell’invenzione nella propria irreparabilità. Quanto più ti esibisci (ti riproponi, dimostri chi sei) tanto più entri in te, nella problematica metafora della tua esistenza. Metafora, e forse profezia. Perché sa, questo poeta, che il dolore può essere l’arma più adatta a impedire la perdita ultima dell’uomo quale si trova a vivere oggi sulla terra: il dolore dell’uomo, che è anche il dolore per l’uomo. Sa il poeta che si possono inventare macchine per vincere la forza di gravità, ma non per vincere la forza della «stupidità della terra». Scrive Verri, al capitolo quindicesimo: - Cara madre... come già sai, anche se ti sei chiesta sempre il perché, io continuo a scrivere, continuo a cercare parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte strani momenti della mia vita, che molti dicono povera. Coi risultati non ci siamo, ma questo non vuol dire. Il più delle volte le parole che affibbio alle cose non reggono... non abbiano... appigli di nessun genere, e come niente... mi restano in mano... Ma a che serve poesia, dicevi un tempo: a che serve il cielo puoi dire adesso, a che questa immensa voglia di alzarsi, volare?...Colpa anche della vaghezza, madre, della vaghezza e della stupidità della terra, della sua porosità... Spero solo di non restare coi miei quaderni, col mio stupore, con queste svuotate parole, con i miei propositi di volo: non altro che gioco, ripetizione, bisticcio... Tutto qui, madre... nient’altro se non il solito vecchio cuore tagliato a spicchi... e il correre stolto, e il correre continuo, con ali bianche, quasi senza corpo,verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado -.L’elegia per la madre-dea, viatico premonitore allo schianto abbagliante dell’uomo dei curli.

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